15.9.08

Shiatsu tra Ben-Essere e Cultura Evolutiva


Pubblico volentieri un interessante scritto di Shizuto Masunaga Sensei sul significato di Sho (diagnosi complessiva) pubblicato nel testo "Shiatsu et médecine orientale" 


Il “Byôki” (la malattia), come ci rivela la formazione letterale della parola, comporta non solo dei disturbi di natura fisiologica, ma anche dei disturbi di natura psichica. Non sarebbe possibile perciò curare una malattia senza tener conto degli stress provenienti dalla vita del paziente, in altre parole, dal suo contesto familiare, ambientale ecc. Dietro tutto ciò che si manifesta nella forma, c’è sempre il non-forma che gioca un ruolo un fondamentale. Dietro un libro - un pensiero - che è stato scritto, ci sono molti pensieri che soggiacciono in modo non scritto, sviluppatisi al momento stesso della scrittura. All’ombra di opere che sono sopravvissute nel corso dei secoli, migliaia sono scomparse a causa di vari incidenti o perché caduti nell’oblio. Un libro deve essere letto anche tra le righe, un pensiero deve essere capito anche attraverso il non-detto ed è nella perfetta conoscenza dei sintomi che non rientrano nella sua definizione che si deve determinare uno Shô. Dietro le sintomatologie presentate da un malato, ci sono dei disturbi che non sono ancora affiorati allo stadio di sintomi, e dietro la sofferenza causata dalla malattia, ci sono nel paziente delle cose che lo addolorano, di cui per lui è difficile parlare. Ciò che sorregge il corpo visibile è lo spirito, che invece è invisibile. Ogni squilibrio a livello fisico è la manifestazione di una resistenza, a livello psichico e ambientale.
È assolutamente impossibile capire tutto di un essere umano, che è così complesso. Non potremmo avere la totale comprensione nemmeno della relazione più intima che ci sia, come per esempio con noi stessi. A maggior ragione nel caso di un terapeuta che, per quanto compassionevole possa essere, non riuscirà mai a capire la sofferenza di un malato come lui la capirebbe su di sé. In questo senso, ogni individuo è fondamentalmente un essere isolato. Ma è proprio perché esiste questa solitudine che esiste l’amore. In questo risiede uno dei tratti caratteristici della relazione umana. Quando, in una relazione umana, si instaura la fiducia tra due persone, non è solo perché esse si conoscono bene a vicenda. Il malato è qualcuno che si trova in una situazione in cui non è capito dalla sua cerchia. Non sapendo da solo cosa fare, il malato ha bisogno dell’aiuto delle persone che lo circondano, ma che a loro volta non sanno cosa devono fare per lui. In ciò il medico ha la sua ragion d’essere. Gli animali selvatici, in quanto a loro, non si ammalano, per il semplice motivo che, anche se capita loro di soffrire per motivi di salute, sanno perfettamente come far fronte alla malattia; e quando non ci riescono più, attendono la morte, semplicemente, non provando così alcun tormento. Più i mammiferi si evolvono, più si integrano in una vita sociale sviluppata e hanno bisogno della comprensione dei loro simili. Il malato è qualcuno che ha difficoltà ad adattarsi nell’ambiente sociale. Uno degli scopi della cura è fargli ritrovare le sue facoltà d’adattamento, e la bravura sta nel distinguerlo dal malato psichico, poiché quest’ultimo non ha bisogno di cure per mancanza d’adattamento.
La medicina occidentale, concentrando essenzialmente la sua attenzione sui disturbi d’adattamento di tipo organico, rischia di perdere di vista il malato, poiché il suo obiettivo principale è la cura della parte affetta. Se la medicina orientale si qualifica come la medicina del malato è perché, considerando le malattie come qualcosa di correlato a tutti i problemi d’adattamento della persona, percepisce, nei sintomi, gli sforzi che quest’ultima compie per guarirsi. La terapeutica, confidando nelle facoltà naturali dell’auto-guarigione, ha come obiettivo quello di contribuire a queste facoltà. Considerando anche la condizione psicologica del malato come una manifestazione della sua ricerca di guarigione, la medicina orientale dà una notevole importanza a quest’aspetto. Accogliere ogni segno sintomatico manifestato dal soggetto e prestare alle sue sofferenze un ascolto attento è così qualcosa che si traduce nelle quattro diagnosi di un medico che si interessa sinceramente al suo paziente e che cerca di capire la sua situazione. Questo è un elemento importante perché il malato possa fidarsi del proprio medico, ma la fiducia deriva anche dall’effetto che l’attitudine di fiducia del medico ha avuto nei confronti del malato. Il fatto di dare un’importanza particolare alla causa interna implica, da parte del Kanpô, la certezza che esista, nel malato stesso, una facoltà innata di auto-guarigione. La fiducia del paziente, inoltre, implica che egli riscopra, affidandosi al medico, la capacità delle proprie forze nel vincere la malattia.
Questa relazione stretta tra una persona e un’altra nella cura, come descritta da me sinora, è quello che la psicoterapia moderna considera come il punto fondamentale perché si compia la terapia tramite il colloquio. È sorprendente come la medicina orientale, 2000 anni fa, avesse già integrato quest’aspetto nelle cure mediche. Sì può tuttavia sostenere che se la medicina orientale ha in seguito vacillato a causa dell’influenza della medicina occidentale moderna è perché l’importanza dell’aspetto relazionale nella cura non è stata più contemplata. Penso che l’analisi sui quattro sistemi diagnostici del Kanpô dovrebbe condurci a ridare al Kanpô tutto il suo valore e che un riavvicinamento tra la medicina orientale e quella occidentale sarebbe la strada giusta.
In psicoterapia si insegna che l’azione della cura dipende in gran parte dalla comprensione che il terapeuta ha del paziente. Dal punto di vista terapeutico, infatti, la conoscenza che il soggetto ha di se stesso, e che esprime, attimo dopo attimo, sotto lo sguardo del terapeuta, ha un significato molto più importante del fatto che il terapeuta o il soggetto stesso abbia un’immagine precisa della patologia. E questa conoscenza che il paziente ha di se stesso non viene tanto dall’osservazione clinica che fa il terapeuta per avere una conoscenza obiettiva del suo caso quanto piuttosto dal fatto che il terapeuta cerchi di capire il paziente entrando in un rapporto di empatia con lui e stimolando il coinvolgimento. Credo che in questo risieda l’importanza dello Shô. Lo Shô corrisponde senza dubbio alle sintomatologie esposte dal soggetto, tuttavia non deriva dall’immagine fornita e obiettiva della patologia, bensì da ciò che il soggetto stesso ha espresso, istante dopo istante, sotto lo sguardo del terapeuta. È quindi impossibile per il medico determinare lo Shô senza aver avuto un colloquio con il paziente. Ciò che il medico ha capito, riguardo alla sintomatologia del paziente, instaurando un legame di empatia e coinvolgendo il paziente stesso, e non procedendo all’osservazione clinica del caso al fine di avere una conoscenza obiettiva, è ciò di cui il paziente ha preso consapevolezza, riguardo a se stesso, e che il terapeuta ha carpito. Lo Shô, in altre parole, corrisponde sia a quello che viene espresso dal paziente che a quello che il terapeuta capisce. Questa comprensione, inoltre, non avviene per pura cognizione, ma attraverso l’atto terapeutico medesimo.
Nel momento in cui non si va oltre la prescrizione farmaceutica che corrisponde allo Shô [”Oshô-Sôtaï[1]] così come descritta nel “Shan-Gan Lun”, così come in questo testo lo Shô è designato direttamente dal nome di un farmaco, si tende a pensare che questo sia semplicemente un metodo per individuare i farmaci da prescrivere. Da qui, per qualcuno, deriva la concezione semplicistica che lo Shô sia una chiave adattata a un buco della serratura. L’idea che se si trova una chiave, adattata al malato, questa chiave porterà alla guarigione, non è per niente diversa dal modo di pensare della farmacologia occidentale. La teoria che ne deriva è che se non si riesce a trovare la chiave l’unica soluzione sarà di entrare per effrazione/scasso, tramite cioè un intervento chirurgico. Una visione di questo tipo, che dà troppa importanza ai farmaci e considera il medico come una figura centrale, ha negli ultimi tempi funzionato con un certo successo grazie all’effetto di suggestione che ha prodotto nelle cure mediche improntate sulla personalità del medico; ben presto tuttavia, trascinata nella politica commerciale a immagine dell’Occidente, ha scatenato danni provocati dall’abuso di farmaci e dalle malattie derivanti da questi ultimi.
Bisogna ora soffermarsi sul concetto di Shô che, nella sua essenza, è una forma di conoscenza riguardante il soggetto, il cui obiettivo è la cura da parte del medico e che deriva da una classificazione di quello che il medico ha capito toccando con mano il caso del paziente. Benché, secondo il metodo praticato dal medico - Tôeki, Shin-Kyû o Shiatsu, si osservino delle differenze nel modo di classificare lo Shô, questi metodi terapeutici vanno sostanzialmente tutti nella direzione di condurre il malato, attraverso la comprensione - che il medico ha- della sua naturale capacità di auto-guarigione, per fargli prendere consapevolezza di questa capacità insita in lui. Ovvero, se il medico fa prendere consapevolezza al paziente che la guarigione del suo male è di competenza essenzialmente dalle sue stesse facoltà vitali, il paziente stesso, rendendosi conto che l’origine del suo male è dentro di lui, accetterà di vedere, nella sofferenza della malattia, uno sforzo compiuto dal suo organismo per tentare di correggere lo squilibrio e assumerà da quel momento in poi la responsabilità della propria vita, confidando pienamente nelle proprie risorse vitali. Il ruolo del medico perciò è di creare una condizione in grado di suscitare nel paziente, in modo auspicabile, una tale predisposizione di spirito. La prima cosa che il terapeuta deve fare quindi è di instaurare con il malato una relazione umana tale da fargli ritrovare nel prossimo la fiducia che aveva perso. Se tuttavia, quando si ripristina il rapporto di fiducia, il paziente viene sopraffatto dalla sua cerchia, si ritorna al punto di partenza. Così come un malato psichico, quando sembra guarito all’ospedale, si ammala nuovamente non appena ritorna nel suo ambiente sociale, il medico, nelle circostanze attuali del mondo in cui viviamo in cui ci sono solo infinite ragioni per sfornare malati, anche se fa del suo meglio per curarli, il medico si ritrova alla fine a non poter più raggiungere l’obiettivo essenziale che è quello della terapia medica. Nel sistema medico giapponese attuale, in cui più il numero di malati aumenta, più i medici guadagnano soldi, nessuno più si preoccupa della medicina preventiva, che non contribuisce a far guadagnare molti soldi. Quest’aspetto racchiude qualcosa di molto pregiudizievole per la nazione e che non farà altro che peggiorare la situazione patologia del paese. I medici dovrebbero ritrovare la loro missione iniziale che era al servizio del paese, ma ciò è possibile solo per coloro i quali sono stati istruiti a una concezione corretta della cura del medico intesa come cura della persona umana. Secondo il mio parere ciò dovrebbe essere possibile, mediando una cooperazione con la medicina occidentale che grazie a uno studio corretto del pensiero della medicina orientale sta in questi anni rimediando agli errori e ridando importanza alla medicina psicosomatica. Una tale cooperazione può essere possibile solo se presente una comprensione reciproca, e perché questa sussista, c’è bisogno che ognuna delle parti capisca esattamente le proprie peculiarità. Credo che correggere l’attuale deriva del sistema medico è uno dei compiti urgenti che la medicina orientale e quella occidentale devono imporsi.





[1] Oshô-Sôtaï: “O” è un’abbreviazione del termine “Yakuhô”: prescrizione, farmaco prescritto; “Shô” è la diagnosi a seguito dei sintomi presentati dal malato, che comporta la prescrizione di un farmaco; “Sôtaï” corrisponde al concetto di rapporto fra due cose -Oshô-Sôtaï” è il principio terapeutico per il quale i farmaci devono essere prescritti in funzione dello Shô.

tr. a cura di D. Gregoretti per "Shen Dao-Istituto Culturale-Quaderni di Shiatsu"



Tecnica Disciplina Percorso Esperienza


La teoria muta la realtà che tenta di spiegare. E' una citazione tratta da un libro di Philip Dick, scrittore che più di altri forse ha demistificato le realtà apparenti, ed anche ultime, che a sua volta è probabile abbia citato da altra fonte, forse da Einstein o altro geniaccio della fisica teorica, chissà, però si adatta benissimo ad ogni tentativo che, nel corso di vari momenti, ci capita di mettere in atto per spiegare e spiegarci lo shiatsu, dato che sempre ci sfugge alla fine quel qualcosa che ci sembrava lì, definitivamente a portata di mano. E' riduttivo dire che lo shiatsu sia una tecnica anche se possiede un indubbia componente tecnica. Più appropriato definirlo una disciplina, chi vi si accosta deve sicuramente farlo con rigore, ma anche questo non è sufficiente a definirlo. Lo shiatsu ha carattere proteiforme e cangiante: quando pensi di averne afferrato l'essenza ti accorgi che più avanti scorgi un'altro lampo luminoso che brilla e ti richiama e non farsi illuminare da questo rende meno significativo il percorso fatto fino ad allora...toh! ecco che spunta una definizione più appropriata: percorso. Che sia in effetti un percorso nel vero senso del termine, con cambi continui di vedute e prospettiva è incontestabile, ma anche il termine percorso crea un'immagine limitativa: si va da qui a lì, ma lo shiatsu ti pone talvolta dei cambi di velocità e di posizionamento così radicali che non sempre è identificabile con il termine percorso, per lo meno non nel senso, o nei sensi, comune\i. L'ultimo termine che può venirci in mente che ci aiuti a definirlo, tenendo comunque sempre validi i precedenti tre, è esperienza, e qua sembra che ci siamo un po' di più.
Questo, per chi si accosta per la prima volta alla pratica, può apparire un ragionamento astruso e non pertinente; in fin dei conti, se non lo si collega all'utilizzo che si ritiene si debba fare dello shiatsu, ovvero supportare il nostro ricevente nel raggiungere una miglior condizione psicofisica, probabilmente rischia di essere in effetti un po' un esercizio mentale inutile. Quindi cerchiamo di dare spiegazione convincente a quanto asserito innanzi e cerchiamo anche di farlo collimare con le nostre esigenze pratiche.
Lo shiatsu, perché abbia una sua incisiva efficacia, necessita, oltre che delle prerogative tecniche specifiche del tipo di pressione da attuare, ovvero perpendicolarità, costanza e mantenimento del gesto, oltre che di una sua capacità di penetrazione, anche di una prerogativa a monte, relativa allo stato mentale e psicologico di chi pratica, ossia la disponibilità, o meglio, la disposizione. Tra disponibilità e disposizione, anche se termini sinonimi, esiste una sostanziale differenza: laddove la disponibilità esprime uno stato d’animo in cui la volontà del soggetto è determinante nell'orientare la direzione verso cui si ritiene di poter o dover attenuare una certa forma difensiva del proprio io per essere in grado di attuare uno scambio di qualsivoglia natura all'esterno apparentemente senza, o con poche, condizioni (infatti si dice, con affermazione soggettiva, rendersi disponibile) significando quindi, in ogni caso e secondo una prospettiva naturalmente ed umanamente egoistica, che valutando pro e contro esiste la possibilità fare un proficuo scambio, sempre di qualsivoglia natura, con minimo rischio (diffidare quindi sempre di chi annuncia troppo disinvoltamente il proprio essere disponibile come valore etico), la disposizione, caratteristica questa oggettiva, rappresenta invece un’apertura incondizionata a 360° a coinvolgersi in un’esperienza determinata od indeterminata, aldilà di un computo speculativo di dare ed avere, avendo la precisa consapevolezza che qualsiasi esperienza, ed a maggior ragione un’esperienza voluta e cercata, darà sempre e comunque degli utili importanti in termini di evoluzione, trasformazione e cambiamento, e tale è l’esperienza dell’altro, e con altro intendiamo in questo contesto il nostro ricevente, nella pratica dello shiatsu. Se noi siamo ben disposti, il nostro ricevente rappresenterà un’esperienza unica ed irripetibile che ci arricchirà di conoscenza al pari di un viaggio in una terra lontana e misteriosa, e come noi cambiamo e ci trasformiamo quando sperimentiamo qualcosa di unico ed irripetibile, come appunto sa chi ha affrontato un viaggio, non da turista oppure anche da turista, in un paese dove è rimasto coinvolto in usanze assai diverse dalle proprie ed abituali, ma il paragone può beninteso essere esteso a qualsiasi esperienza particolare che continuamente la vita ci offre, così cambiamo e ci trasformiamo nel praticare lo shiatsu ogniqualvolta la nostra disposizione è al massimo grado limpida, disinteressata ed elemento di soddisfazione. Quindi ogni volta noi sperimentiamo l’altro, e l’altro peraltro parimenti specularmente sperimenta noi in un unico continuum energetico, con la giusta e dovuta disposizione, ne veniamo cambiati e trasformati, perlomeno nella misura in cui siamo disposti al coinvolgimento; ne consegue che ogni volta che ne veniamo cambiati e trasformati affrontiamo l’esperienza successiva spesso in modo radicalmente diverso dal precedente ed a questo punto risulta ovvio che, riallacciandosi a quanto detto ad inizio di paragrafo, ossia che ”la teoria muta la realtà che tenta di spiegare”, sia alquanto arduo tentare di sistematizzare e teorizzare in modo completo la pratica dello shiatsu. Rimane così estremamente utile e proficuo, invece, il noto consiglio di non confondere mai la mappa con il territorio che descrive, come ogni buon viaggiatore, o buon turista, beninteso, ha provato sulla sua persona…..OK se l'avete ben digerita....buon viaggio e buono shiatsu.